giovedì 26 aprile 2012

The Avengers: 2 cent su...

Questo post è dedicato a tutti coloro che ancora non l'hanno visto, e a un bambino.
Quindi non farò spoiler, non citerò battute o racconterò scene.
Non ancora.
Vi dirò solo due cose.
La prima è che DOVETE vedere questo film.
La seconda è che questo film è, nell'accezione più letterale possibile, SPETTACOLARE.
-Le maiuscole non sono volute, sono dovute.-


Secondo voi, qual è lo scopo delle montagne russe?
Non è che come mezzo di locomozione servano ad un granché (parti e arrivi nello stesso punto), non hai molto tempo per goderti il panorama...
Le montagne russe servono ad una sola cosa: emozionarti. Farti divertire.
E lasciate perdere le menate calviniste/cattoliche secondo cui divertirsi è Male.
Il divertimento fine a se stesso è grandioso, quando è onesto ed è fatto bene.

Se pensate che il cinema sia intrettenimento, che la magia del grande schermo sia quella capace di regalarvi un mondo ad un battito di ciglia dalla vostra immaginazione, DOVETE vedere questo film.
Se siete appassionati di fumetti, o semplicemente se i film Marvel fino ad ora vi sono più o meno piaciuti, DOVETE vedere questo film.
Se amate l'onesto e sano divertimento, DOVETE vedere questo film.


Quello che ha fatto Whedon è stato impostare un onesto action movie fracassone e catartico come l'onesto action movie fracassone e catartico definitivo.
Let's go to work
È quella maledetta, epica battaglia finale su cui si chiude la serie televisiva di Angel (guarda un po'), quella che doveva essere l'Alfa e l'Omega di tutte le battaglie campali tra Bene e Male.
È l'essenza del concetto di "Avengers Assemble!" condensata, raffinata e lasciata deflagrare, con in più -e non è poco, davvero- un uso magistrale dei meccanismi dello splapstick-humor (tempi, battute, caratterizzazioni... 10 e lode).


Mettiamola così: decenni di attesa, da quando il primo Superman ha dimostrato che era possibile credere a un supereroe sul grande schermo.
Altri anni ancora, da quando Iron Man piomba giù nel primo film e salva un villaggio dalla devastazione.
Anzi, meglio ancora: da quando, dopo i titoli di coda, Nick Fury/Samuel L. Jackson (probabilmente uno dei migliori casting del secolo) parla a Tony Stark/Robert Downey Jr. (idem, anzi deppiù) della "Avengers Initiative".
Anni di attesa, moltiplicata da ogni film, da ogni rivelazione, da ogni anticipazione.

E attesa persino in questo stesso film, in cui la parte iniziale e quella centrale, che pure sono buone, sono tuttavia funzionali solo ad una cosa: preparare il terreno per quello che, a mio insindacabile giudizio, è il più grandioso, epocale ed esaltante Terzo Atto della storia del cinema.
Tutto, proprio tutto, serve ad arrivare a quel momento lì, a quelle scene lì, a quel capolavoro lì.



Ci sono difetti? Oh, sì, senz'altro.
Non starò certo ad elencarveli perché, per me, non sono importanti.
Quello che è importante è solo quel combattimento finale: questa maxisequenza, questa corsa sulle montagne russe da fermi, secchiate di adrenalina ed endorfina e pura goduria riversata direttamente dagli occhi al cuore. 
Ne vale la pena?
Ne è valsa la pena, aspettare tutto questo tempo, solo per questo?

Sì.
Oh, sì.
Assolutamente sì.

DOVETE vedere questo film.
Il prima possibile.

(Anche perché, e ora lo si può finalmente dire, questo potrebbe sul serio essere solo l'inizio dell'Età dell'Oro dei Supereroi al cinema.)


Ultima cosa: c'era un bambino, a pochi posti di distanza dal mio.
Per un attimo sono riuscito a staccare gli occhi dallo schermo e mi sono girato a destra.
E questo bambino, che avrà avuto tipo sette o otto anni, era strabiliato: tutto teso, immobile e spostato in avanti, con gli occhi e la bocca spalancati e completamente rapito, era nello schermo e a fianco degli eroi, dei suoi eroi e potevi quasi vedere tutto quello che gli brillava dentro.
In quel momento, per un momento, gli ho voluto bene, a quel bambino lì.

E questo lo dedico a lui, che insieme a me ieri ha visto gli eroi.

martedì 24 aprile 2012

South Park 16x06, ovvero non avrei mai dovuto...

Amate South Park.
Adoratelo.
Si stramerita ogni minima oncia di venerazione gli venga tributata, e molta di più.

Ah: qui si spoilera di brutto, quindi se non avete ancora recuperato, fatelo ora.

La sedicesima stagione è partita col botto e Parker & Stone hanno ripreso a divertirsi e a divertire come loro solito, dopo la pausa finto-esistenziale dell'accoppiata "You're getting Old" e "Assburger" dello scorso anno.

Ammettetelo: sembra grandioso.
In attesa della prossima storia d'amore di Cartman, nel frattempo, i quattro mocciosi del Colorado hanno pensato bene di concedersi un'avventura memorabile per il loro ultimo giorno di vacanze primaverili.
E quindi la grande idea: andiamo tutti a fare zip-line!
Ovvero una sorta di sport estremo, in cui  ci si attacca ad una fune dopo essere saliti su una bella montagna e ci si lascia scivolare giù, imitando i meglio ninja del mondo.
O almeno, questa sarebbe l'intenzione.


Tipici Partecipanti Entusiasti

Quello che succede è che i nostri quattro eroi si ritrovano in un incubo che ricalca i più biechi finto-documentari di Animal Planet o NatGeo Adventure, con la noia mortale al posto dell'eccitazione.
Vi aspettavate rischio, adrenalina, brividi?
Vi ritrovate irretiti da una guida insopportabile, inscatolati assieme ad una torma di turisti della domenica, dementi e logorroici allo stato puro, e sarete costretti ad ore di pulmino dopo una tortura a base di idiotissimi video introduttivi.



Kyle trattiene a stento l'entusiamo

E lo ziplining? Imbracati fino al midollo, lenti, ore di attesa per pochi minuti di vuoto pneumatico spinto, seguito da altre ore di attesa.
Poco più che una colossale menata, esaltante quanto una domenica pomeriggio a casa di Zia Adelina a spolverare la collezione di bomboniere.


Provate a scappare prima di cadere preda del tedio, ma è tutto inutile: non c'è scampo.
Non c'è scampo.
Moriremo tutti.
Di noia.

Basta, per pietà. Avevate detto che era divertente.

Puntata strepitosa, con due o tre momenti di adamantina ilarità (la versione "real" dei quattro bambini è superba).
Ma, stavo pensando...

Dunque: abbiamo dei ragazzi che vorrebbero provare qualcosa di nuovo, di eccitante e alternativo. Qualcosa che, almeno sulla carta, è Veramente Figo.
Finiscono invischiati in una Bieca Operazione Commerciale (TM), circondati da un branco di Vecchi Dentro che si esaltano a comando per ogni singola fesseria e a cui bisogna spiegare anche come aprire la bocca quando arriva il cucchiaino.
E che non stanno mai, mai zitti.
Mai.
L'attività su cui avevano riposto tante speranze potrebbe anche essere divertente se non gli fosse stata volontariamente e premeditatamente tolta ogni forma di rischio, ogni scintilla di originalità.
Così com'è, è solo una patetica pantomima, uno sbiadito ricordo di ciò che sarebbe potuto essere.
Oltretutto, sono costretti a ripetere la stessa esperienza più e più volte, sempre uguale, e già la prima volta è stata una delusione. Ma non c'è niente da fare: bisogna continuare ancora, e ancora.
Potrebbe anche non finire mai.
Il tutto orchestrato con metodo da gente che, pur di venire incontro alle Ridotte Capacità Mentali degli affezionati-Vecchi-Dentro, ha appiattito tutto a livelli infimi, riducendo quella che doveva essere un'esaltante e catartica avventura ad una reiterazione liturgica vuota e innocua, in cui tutto resta immutabilmente banale, sterile e identico a se stesso...

Dite quel che volete, ma a me sembra una metafora abbastanza efficace di buona parte del mondo del fumetto, oggi.

    

mercoledì 18 aprile 2012

Grimm - 2 cent su...

Se giocate a poker, quello vero, non quella boiata televisiva del Texas Hold'em, saprete che la chiave della vittoria è giocare bene le propre carte. Anche una mano appena discreta può fruttare un buon piatto.
Per Grimm, serie fantasy NBC, le cose sono andate così.
Il soggetto non è particolarmente originale, ci sono pochi elementi davvero validi ma bisogna ammettere che lo staff ha saputo giocarseli bene, tanto da guadagnarsi il rinnovo per una seconda stagione.

Da cosa si parte.

Nick Burkhardt è un detective di Portland. Un buon detective, classico all-american-boy. Fa il suo lavoro in coppia con il collega Russel, ha una fidanzata, Juliette, e una vita tutto sommata normale. Almeno fino a che la zia Marie non torna nella sua vita. Marie è la donna che ha cresciuto l'orfanello Nick.
Una donnina fragile, affettuosa ed una micidiale macchina di morte.
Davvero: immaginatevi una cosa tipo Yoda e Chiun con le fattezze della dolce e inferma signora vicina di casa. Peccato che i giorni della zietta su questa valle di lacrime siano contati, perché era un personaggione.
E infatti ci mette un bel po' a crepare, la vecchietta, e prima di decidere a farsi seppellire una volta per tutte riesce persino a prendere ancora a calci uno o due culi per poi passare all'ignaro Nick il testimone per la sua nuova missione da Grimm.

Cos'è un Grimm? In buona sostanza, un cacciatore del soprannaturale. Un segugio capace di riconoscere, stanare e uccidere i Wesen, ovvero tutti quei simpaticissimi mostri che da sempre condividono la vita con l'Uomo, nascosti se non nelle leggende e nelle favole. Insomma: licantropi e così via che vivono più o meno tranquillamente tra di noi, celando il loro vero aspetto.

Nick si trova quindi invischiato in questo nuovo, pericoloso aspetto della realtà, con l'unico ausilio dell'eredità della zietta (una roulotte/arsenale/sancta-sanctorum che è il sogno bagnato di ogni geek che si rispetti) e di Monroe, un lupo mannaro (Blutbad, nella serie: il tedesco sembra essere la lingua base dei Wesen) che ha deciso di darsi al pilates, alle verdure e alla riparazione di orologi per lasciarsi alle spalle le brutte abitudini (uccidere, squartare, mutilare, sbranare...) degli antenati.


Cosa c'è di buono.

Detta così, poco. Il soggetto, come dicevo, non è il massimo dell'originalità, se vi piacciono gli eufemismi.
Buffy, Angel, Supernatural... c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Non è un caso se dietro Grimm c'è la mano (capace) di David Greenwalt, ovvero uno della "scuola Wheadon", co-creatore della serie dedicata al nostro amato Campione Vampiro con l'Anima.

Cattivo, ma con stile.
Ma, dopo un iniziale rodaggio ancora troppo legato al concept "monster of the week", Grimm ha saputo imbastire una buona trama orizzontale, basata in massima parte sui misteriosi intrighi del superiore di Nick, il capitano Sean Renard (un ottimo Sasha Roiz), probabilmente una delle migliori caratterizzazioni dello show insieme a Silas Weir Mitchell, ovvero Monroe.

Che avrò fatto di male...
Già, Monroe. Sarcastico, costantemente combattuto tra una natura docile e il suo alter ego sbranapecore, Monroe è il vero personaggio cardine della serie. Costretto da Nick a fare di volta in volta da guida turistica nel mondo dei Wesen, informatore, infiltrato e carne da cannone, il buon Blutbad sopravvive a dosi di autoironia e stoicismo. Una buona prova d'attore per Silas Weir Mitchell, che è riuscito a dare un tocco di adorabile goffagine a un tizio che sarebbe capace di offrirti una tisana, andare in deliquio per un trenino elettrico o strapparti via le braccia.

I Wesen, ovvero i principali antagonisti di Nick, sono ben caratterizzati: a parte i classici lupi mannari c'è un bestiario capace di accontentare ogni maniaco del furry, inclusi procioni, draghi, topi, rettiloidi vari e uccelli. Al momento sembra che i Wesen abbiano una propria struttura sociale molto complessa, ma la cosa è appena appena accennata, anche se la visione dell'equivalente delle fumerie d'oppio è stato... interessante.
Gli effetti di trasformazione non sono male, considerato che il budget a disposizione è quello che è.

Nella dieta le fibre sono importanti!
Personaggi a parte (va almeno citato il Sergente Wu/Reggie Lee, che nelle ultime puntate s'è prodotto in performance gastronomiche da applausi), dove Grimm sta dando una buona impressione è nel tono degli ultimi episodi, che riescono a gestire bene l'equilibrio tra le parti fantasy/horror (moderatamente blande ma tutto sommato efficaci), il poliziesco (roba da serie B, a dirla tutta) e il tono più leggero e scanzonato. Siamo ancora lontani dai dialoghi brillanti di Angel e dalle citazioni metatestuali di Supernatural, giusto per citare i primi diretti punti di riferimento, ma almeno le puntate non sono un micidiale spreco di tempo come per Once Upon A Time.
   
Cosa c'è da migliorare.

Il personaggio principale, senza dubbio. Al momento David Giuntoli-Nick, una sorta di versione light di Brandan Fraser (capirai...), ha il carisma di un boiler. E la sceneggiatura non lo aiuta: il nostro protagonista è troppo passivo e troppo poco incisivo.
Inoltre, ammettiamolo: da quello che s'è capito fino ad ora Nick è la chiavica dei Grimm.
Per capirci: ogni volta, ogni volta che un Wesen sente la parola "Grimm" sbianca, se la fa nei pantaloni e scappa implorando pietà. Il che, dopo aver visto in azione la Cara Vecchia Zia Marie, non è neanche tanto strano.
Non sottovalutatela: porebbe sgozzarvi con quel coltello prima che possiate dirle che i pomodori non vi piacciono
I Grimm, apparentemente, devono essere abilissimi, spietati e implacabili.
Nick nel migliore dei casi con i Wesen prova a (sigh) parlarci, si fa pestare come un sacco da allenamento e per lo più la sfanga con poderose Botte di Culo (TM), o grazie all'aiuto di Monroe. Va bene un protagonista più umano, con dubbi, scrupoli e quant'altro, ma qui si esagera. Eppure la lezione di Angel dovrebbe essere chiara: meno chiacchiere e più asce.

Anche la storia d'amore con Juliette è poco sviluppata. Tra i due c'è un rapporto profondo, ma Nick (dietro Ultime Volontà della zietta e in piena sindrome da supereroe) non ha detto nulla alla compagna della sua nuova qualifica professionale, con il risultato di farla trovare parecchie volte in guai grossi senza neanche spiegarle bene il perché. E c'è anche rimasto male quando la bella figliola ha rifiutato la sua proposta di matrimonio, visto che lei non può fidarsi completamente di uno che non le dice tutto. Ma che strano, eh?
In definitiva, Juliette meriterebbe più spazio, ammesso che riesca a scrollarsi di dosso quella fastidiosa death flag che si porta dietro dalla prima puntata.
Ah: e persino Juliette spara meglio di Nick.

Inoltre, alle soglie della diciottesima puntata e con un rinnovo già bello in saccoccia, forse è arrivato il momento di premere il pedale sul'acceleratore: coinvolgere di più gli spettatori dando finalmente un'occhiata più approfondita al setting del mondo dei Wesen, fino ad ora solo appena accennato. Approfondire le relazioni tra i personaggi, sciogliere un po' i dialoghi... buttarsi, insomma.

Gli ultimi episodi visti non sono stati male, in quest'ottica, e anche il personaggio ricorrente di Adalind (un'intrigante Claire Coffe) reclama maggiore attenzione. E non lo dico solo perché è così:
Il sesso con lei potrebbe ridurvi in coma. Rispettate la fila.
Tiriamo le somme.
Dopo essere rimasti orfani di Supernatural (no, non è vero. Non sta continuando. Chi vi dice il contrario mente sapendo di mentire), Grimm ha le potenzialità per diventare un buon sostituto delle avventure dei fratelli Winchester (BUM!). I dati d'ascolto si stanno dimostrando una vera boccata d'ossigeno per la NBC e il serial inizia ad avere un discreto seguito anche sul web. Lode agli autori per essere riusciti a superare il pantano in cui s'erano ficcati con gli episodi centrali.
Sono stati introdotti anche un paio di personaggi nuovi potenzialmente interessanti, chiaro segno che c'è la volonta di proseguire. Ottima cosa, considerato anche che le serie Wheadoniane (e questa lo è) ingranano seriamente dopo la prima stagione.
Speriamo: Grimm non avrà le pretese di Touch o la finezza stilistica di Awake, c'è ancora parecchio su cui lavorare ma, come dicevo, quello che si è visto fino ad ora potrebbe addirittura alimentare un cauto ottimismo.
Altrimenti c'è sempre Once Upon A Time, se proprio non riuscite a smetterla col masochismo.

lunedì 16 aprile 2012

I segreti di Burden Hill: 2 cent su...


C’è un segreto che unisce tutti coloro che dividono la loro vita con un cane o un gatto. Non ne parliamo spesso, noi della cerchia, ma quando l’argomento viene toccato c’è un generale assenso, qualche aneddoto… e poi la resa all’evidenza, silenzio ed un veloce cambio di discorso.
È l’intima, inesplicabile e al tempo stesso incrollabile consapevolezza del fatto che ci sia molto, della vita dei quattrozampe, che esula dal nostro controllo.
Momenti in cui, da soli, liberi da guinzagli e fuori dai cancelli, i cosiddetti “animali domestici” vivano una loro vita che è autonoma ed indipendente dalla nostra volontà. Non “selvatica”. Solo… diversa da quella che ostentano in nostra presenza.
Se anche voi fate parte del club, sapete a cosa mi riferisco: a quello sguardo capace di conciliare la più angelica innocenza alla più sfacciata spavalderia; quella luce che scintilla nei loro occhi, maledette canaglie, quando rientrano dopo aver vagato per ore in giardini (o strade, o Reami) che a noi sono preclusi.
Ora, finalmente, una mezza idea di cosa combini il mio (uso questo possessivo per pura consuetudine, ovviamente) gatto ce l’ho.
Perché c’è un mondo, lì fuori, ad appena un passo oltre le solite strade, in cui i quattrozampe si avventurano per combattere battaglie contro orrori e mostri sovrannaturali. Un mondo descritto con trasporto e poesia da Evan Dorkin, dipinto in un sognante acquarello da Jill Thompson: un connubio di personalità ed espressività come raramente ne ho visti. Un mondo pericoloso, ed eroico, e bellissimo.

giovedì 12 aprile 2012

Saint Seiya Omega: 2 cent su...

L’analisi di un prodotto non può e non deve esimersi dal target di riferimento: occorre sempre tener presente il pubblico per cui quel prodotto è stato pensato e confezionato, onde evitare di…
No, non ce la faccio.
Saint Seiya Omega è una cagata pazzesca!
Ah, va meglio…
M’ero ripromesso di aspettare qualche altro episodio prima di calare la mannaia, mai giudicare il libro dalla copertina e così via, ma la visione della preview del terzo episodio m’ha fatto cambiare idea.
Perché niente deve restare impunito.
Per chiarire: non è che sia un denigratrore del marchio “Caballeros”, eh?
Anche dopo aver smaltito l’euforia deleteria da girella, per cui ti sembrano notevoli cose che poi, anni dopo, ti vergogni pure d’aver visto, resto dell’opinione che il primo Saint Seiya sia stato un dignitoso shonen, con tutti i difetti e i pregi del genere.
Trama inesistente, caratterizzazioni dei personaggi alla “facci ridere”, colpi di scena telefonati dal salotto e così via. Però c’era il chara di Shingo Araki, una soundtrack efficace e, ammettiamolo: alcune armature erano veramente fighe.
Quindi annunciano un nuovo capitolo animato (dopo le alterne vicissitudini dei vari Hen) e uno pensa: oh, magari vien fuori qualcosa di buono.
Leggi il cast tecnico e dai: poteva andar peggio, tutto sommato. Il regista è quello delle Precure, ovvero le meglio maghette dopo Nanoha, il character designer è quello del pittorico (ma soporifero) Casshern Sins e tutto sommato, se la imbroccano…
Che brutta cosa l’ottimismo.
Ho iniziato ad avere vibrazioni negative già all’uscita delle prime immagini promozionali, ma fa niente.
Esce il primo episodio e sopravvivo, a stento, alla sigla.
Che è un inutile remix di Pegasus Fantasy (e già il fatto che si ricicli la vecchia sigla dovrebbe far capire molte cose), ma raggiunge il vero culmine con la foto di gruppo in posa dei nuovi protagonisti.
Qui potrebbe venir giù il teatro, volendo.
Comunque inizia questo benedetto primo episodio e io sono costretto a vederlo due volte. Perché la prima visione è talmente devastante che la mia mente l’ha semplicemente rimossa. Quindi me lo riguardo, pensando: “No, dai: ti stai sbagliando. Non può essere così brutto”.
E in effetti ho ragione. Non è così brutto.
È peggio.
Il problema non è la realizzazione tecnica. Che è mediocre, comunque: la QUALITY regna sovrana, ci sono un paio di strafalcioni di quelli seri (pezzi d’armatura che scompaiono/riappaiono a casaccio, per esempio) e alla via così.
No: il problema ha radici più profonde.
Quello che si sta compiendo sotto i miei increduli ed occhialuti bulbi oculari è uno stravolgimento del canone originario: questi qui non sono più i Santi di Atena. È altra roba, e inizio ad avere un brutto sospetto.
Ma potrei sbagliarmi. Potrei essere accecato dal mio esser vecchio dentro, e quindi immotivatamente legato all’idea romantica dei “vecchi” Cavalieri di Atena (oddìo, ma che sto dicendo?).
Quindi aspettiamo ancora qualche puntata e vediamo che succede.
Esce il secondo episodio, lo guardo, rido.
Ma tanto.
Preview del terzo episodio, rido tantissimo.
Poi una folgorazione, il mondo si illumina e tutto diventa chiaro. E smetto di ridere.
Allora.
Primo episodio: Saori-Atena-Lady SisaBel e Seiya-Pegasus difendono questo neonato, Koga, dall’attacco del malvagio ed oscuro Marte.
Gli anni passano e il neonato, ora giovin virgulto, cresce su un’isoletta, educato a suon di mazzate da Shaina (gran mossa, quella di usare una sadomasochista latente come tutor, complimenti), mentre Saori-Atena-Lady SisaBel passa il tempo a far la calza (no, non sto scherzando).
Poi ritorna Marte, asfalta facilmente Shaina e Saori si sacrifica per salvare Koga, che ha un attimo di sboronia utile solo a far vedere che c’è del potenziale, lì sotto. Quindi: vestizione! (Ah, no, quelli erano i samurai… vabbè, tanto la sequenza è identica).
Attenzione: adesso le Cloth non sono più custodite in quei simpatici cubi di metallo intarsiati 60x60 così comodi da portare in spalla modello zainetto Invicta. No: ora sono magicamente inserite in comodi gioiellini, da cui spuntano fuori alla bisogna in un tripudio di miccette e fuochi d’artificio da quattro soldi.
E sono molto, ma molto più fashion di prima. Per dire: la cloth del Sagittario ha incorporato uno svolazzante foulard bianco che non servirà ad una mazza in battaglia, ma vuoi mettere l’effetto scenico? I colletti sembrano quelli di camicie inamidate male e tutto ha questo aspetto da stoffa che farà felici i cosplayers.



Insomma c’è una sensazione strisciante di stortura, tipo quando torni a casa e trovi le tue cose spostate.
Veniamo al secondo episodio: Koga, devastato dalla propria nullaggine, decide di partire per salvare Saori-Athena-Lady SisaBel.
Ok, grande piano. Partire per dove? Salvarla come?
Oh, quanti problemi che ti fai: tu inizia ad andare e poi vedrai che sarà il ciondolino Kinder -ora con Più Armature®- a indicarti la via (e no, non sto scherzando neanche qui).
Quindi Koga va e lungo la strada incontra, ohibò, un nuovo amichetto: Soma del Leone Minore, che prima lo mena (aridaje), poi si stupisce nel sapere che lui è addirittura l’erede dell’addirittura famossimo Seiya di Pegasus, poi lo umilia di nuovo, lo sbeffeggia e infine gli spiega che ogni Santo ha un elemento naturale che lo contraddistingue.


EH?
E da quando?
Ma come, non lo sai? Ok, in anni e anni e anni di Cavalieri questa cosa non è MAI stata nominata, ma la sanno tutti. Aria, Fuoco, Terra, Luce, Tenebra eccetera, tutti contraddistinti da quei bei simboletti che fanno tanto gadget figo.

Oh, in Naruto ha funzionato: che siamo noi, i figli della serva?
Tra il lusco e il brusco arriva un kattivissimo che li pesta, i due evocano le armature (Koga dal ciondolino, Soma dal braccialetto… e se a questo punto non avete i brividi non so che altro dirvi) ma è solo quando Koga scopre di essere –WOW, sorpresona- un predestinato della Luce che riescono ad avere la meglio.


Notare i particolari: l’armatura del Leone Minore ha le fiamme disegnate per andare più veloce, il guanto lungo + giarrettiera da drag queen e prevede il culo scoperto. A voi i commenti, io non ho il cuore.


A questo punto Soma propone a Koga di unirsi a lui per dirigersi verso Palaestra, l’accademia dove i Santi vengono addestrati e …
Alt, momento.
Ricapitoliamo.
Neonato, coppia che si sacrifica per salvarlo da cattivissimo oscuro.
Il bimbo, che è il Prescelto dal grande potenziale, cresce ignaro fino a che il destino non ribussa alla porta.
Lui parte, incontra un amichetto coi capelli rossi e insieme vanno all’Accademia, dove incontreranno una ragazza abilissima ma sbulleggiata dai compagni di corso cattivi.
Ok, tutto chiaro.
Non è Saint Seiya: è Harry Potter.
Incrociato con le Winx.
Scoop: i prossimi Cavalieri dello Zodiaco, con le nuove armature modello La Rinascente

mercoledì 11 aprile 2012

My Win

E insomma: passi una gran bella seratina al pub (il Morrigan Pub, per la precisione. Ovvero un altro dei posti che fanno bene all'anima, ma ne riparleremo).

Un "Invito a cena con delitto" divertente, con la caciara che alla fine sei stanco che Morfeo ti si porta, ma hai ancora un sorriso stampato sul viso, di quelli che ti fanno compagnia ancora per un po'.

E capita anche che gli anni e anni e anni passati tra Ellery Queen e CSI alla fine siano serviti a qualcosa, per cui becchi il colpevole e vinci questa meraviglia di bottiglia formato maxi di ottima birra belga che ora è lì, da parte, in attesa di una buona occasione.

Insomma, dicevo, esci dal locale con questa meraviglia di bottiglia stretta a te e niente, l'unica cosa che ti viene in mente è questa scena qui:


Ricorda: l'ho vinto io.
È mio.

martedì 10 aprile 2012

Birra, True Story e Cucchiarè

Inauguro due nuove sezioni in un sol colpo. La premessa di “True Story” è che tutto quello che scrivo è, per quanto incredibile possa sembrare, pura verità. O quasi.




“Beer good” è auto esplicativa. And foamy. Check reference.




La cosa che stupisce me per primo è che la birra neanche mi piaceva.
Il buon vino ok, quello lo apprezzo.
I buoni liquori, anche.

Ma la birra, proprio no.
Troppo amarognola, troppo pastosa e pipipi (tipico verso del maximus aemulus schifiltosus).
E non è che parli di molto tempo fa: qualche anno o giù di lì.
Ricordo anche qualche battibecco in merito, nel periodo universitario.
Del tipo: ma se non ti piace perché la bevi? (Che poi, capirai: al massimo una Leffe Rossa)
Mah, per far gruppo, perché siamo in compagnia… insomma boh. Anzi, sai cosa? Smetto proprio di berla, tanto manco mi piace davvero.
E così è stato, per anni.

Poi leggo American Gods.
Che è un gran bel libro.
E che, probabilmente, ha cortocircuitato qualche sinapsi, perché mentre lo leggo mi viene questa improvvisa smania di aprire una six-pack di birra americana e trangugiarla modello Barney dei Simpson.
Deve essere una sensazione molto simile alle voglie da donna incinta, o all’improvviso apprezzamento nei confronti di finger fish + custard.


Insomma, mi cambia il senso del gusto. Ma veramente da un momento all’altro.
Anzi: da una pagina all’altra.
Roba che a raccontarla non ci si crede.
Quindi, se non vi piace la birra, non angustiatevi: se ce l’ho fatta io, c’è speranza anche per voi.

E meno male, altrimenti mi sarei perso anche momenti di gioia suprema e posti che fanno bene all’anima.
Tipo (per citare giusto l’ultimo visitato, gli altri arriveranno), Cucchiarè, che è questo piccolo locale in questo piccolo paesino che se non siete di Mariglianella, è difficile l’abbiate mai sentita nominare, Mariglianella.
E tanto per fare sfegatata e meritata pubblicità, ci sono un bel po’ di ottime ragioni per voler bene a Cucchiarè. Per cominciare perché è un localino rustico che pare uscito da Frittole.
Perché Antonio, il titolare, è capace di parlarvi con dovizia di particolari di un micro-birrificio islandese che produce solo una bottiglia all’anno come se ne avesse una lì. E, al 99%, è proprio così.
Perché si mangia molto molto bene (anche se attendiamo tutti con molta ansia il giorno in cui ricomincerà a fare le pizze, che ci mancano).
Perché a volte, ad intervalli random, ci si trova la sacher torte alla birra, che è tipo la cosa più buona mai fatta al mondo (seguita a ruota dalla salsa barbecue con riduzione di birra trappista...).
E perché, se è in serata, Antonio può anche farvi assaggiare cose come QUESTA.

E QUESTA, miei cari, è una stout che già era eccezionale all'origine, ma che Antonio ha fatto accuratamente invecchiare per anni, fino a trasformarla in un’esperienza sensoriale capace di coccolare le vostre papille gustative una per una.
Bevetela, e vi dirà che va tutto bene, che è tutto bello e giusto.
E spumoso.


PS: per la cronaca, il testo sul bicchiere è questo:
“There is an ancient Celtic axiom that says ‘Good people drink good beer.’
Which is true, then as now.
Just look around you in any public barroom, and you will quickly see: bad people drink bad beer. Think about it”
Amen.

2 cent su... Quartetto.

Triste è l’uomo che non danza. Perché abbiamo eletto il ballo a metafora della vita e danzando, con la fusione tra musica, corpo e movimento, siamo capaci di esprimere e vivere qualunque cosa: solitudine, coesione, seduzione, ribellione, odio, amore.
Passeggiamo per le nostre vite con musica che scandisce l’intervallo dei nostri passi, e dei nostri stessi respiri. E come si può chiamare, questo, se non danza?
Si può raccontare una danza con un fumetto, che manca proprio di movimento e rumore?
O meglio: che vive nell’illusione del movimento, e nel simbolo del suono?
La sfida è anche raccontare la vita, e l’amore, di quattro uomini attraverso colori e movimenti musicali.
L’ardente passione di un ballerino abbandonato che deve ricreare se stesso pur di ritrovare l’amore, e la leggerezza nel passo. Colore: rosso, in un giro di valzer.
La languida e sensuale tristezza di un uomo in auto, sotto la pioggia, che spinge sull’acceleratore per raggiungere qualcosa che, ormai, ha perso per sempre. Colore: blu, per un ultimo tango.
Una schiena sensuale che sembra scolpita con legno pregiato, uno sguardo di intesa. E una speranza, sottile, tenue, eppure vivace e incrollabile. Colore: verde, in punta di scherzo.
Una trama antica e preziosa, un amore eterno e indistruttibile capace di superare anche le prove più dure, e continuare a risplendere, intatto. Colore: oro, movimento amoroso.
Quattro quarti d’autore, e se sono quattro uomini i protagonisti, e quattro gli scrittori ad aver dato loro pensiero e intensità (intenzione), è una donna – Catel, l’autrice di Kiki de Montparnasse- a concedere all’opera forma e movimento, con sensibilità. Con maestria.
Come nella danza: è l’uomo che conduce, ma è la donna che gli dà vita.

venerdì 6 aprile 2012

Lupin III – Mine Fujiko to lu Onna: La prima impressione... è quella che non conta


È appena iniziata la nuova, rutilante serie dedicata a Lupin III, in occasione dei suoi 40 anni.
(40 anni. Ok, panico.)

 
Serie lupin-esca nuova di zecca, quindi. Anche se, in realtà, la protagonista è Fujiko.

 Grazie ai potenti mezzi della tecnica, ho visto il primo episodio (come diverse migliaia di persone al mondo...) e l’impressione è stata talmente sconcertante da volerne parlare un po’, infrangendo un tabù personale: non giudicare una serie dal primo episodio o giù di lì. A meno che, ovviamente, non si tratti di una lampante caHata.
Ma non è questo il caso. Lupin III - Mine Fujiko to lu Onna (La donna chiamata Fujiko Mine) potrà avere i suoi difetti (e li ha), ma di sicuro non è una lampante caHata. E ha i suoi perché.
Per cominciare, l’intento di recuperare caratterizzazioni più simili a quelle originali di Monkey Punch. O almeno di discostarsi dal personaggio macchiettistico che Lupin era diventato nelle ultime serie televisive.
Diciamo alleluja.
Non ci riesce del tutto, ma l’intenzione è buona… se poi è la strada verso l’inferno lo vedremo più avanti.
Poi la realizzazione tecnica, affidata a quel poser di Takeshi Koike. E qui c’è da fermarsi un attimo.
Koike è uno di quelli, uno che “o lo ami o lo odi”. Per lo più, lo odiano. Redline, che doveva rappresentare il nuovo avvento dell’animazione, s’è rivelato un flop al botteghino peggio di –ahi- John Carter.




Perché Koike è fuffa, è esagerato, è tutta forma e niente sostanza e così via.

E, in effetti, Redline era insopportabile: dopo dieci minuti di linee iperdeformate, di deliri cinetici e colori acidi inizi a sentire distintamente i nervi ottici sfasciarsi mentre i neuroni ti colano fuori dalle orecchie.

Quindi qualche Genio del Marketing ™ deve aver pensato che fosse la soluzione ideale per il rilancio in grande stile di Lupin III.
La fortuna è che venti minuti di animazione in puro Koike-style sono, almeno minimamente, tollerabili.
Vi dirò: se a qualcuno piace questo stile post-acid-pop-liberty, e passa sopra al fatto che il budget era quello che era e hanno cercato di nasconderlo il meglio possibile…
Dai, su.


Ora:  abbiamo personaggi e situazioni finalmente più adulti rispetto agli anni precedenti. Check.
Si vedono tette, comprensive di capezzoli, a profusione. Check.
C’è Lupin, c’è Fujiko e c’è anche, in una breve ma intensa apparizione corredata di assistente adorante, Zenigata. Check.
C’è un comparto grafico che potrà non piacere, ma a cui non si può negare uno stile. Check.

Allora qual è il problema?
Il problema è la proporzione trama/personaggi.
Normalmente, le storie di Lupin III dovrebbero (dovrebbero) essere centrate sulla trama, sull’azione che porta il personaggio -carta conosciuta, come diciamo a Napoli- a raggiungere il suo obiettivo.
Non c’è bisogno di perdere tanto tempo sulla presentazione del personaggio perché, dai: è Lupin.
Ma qui la psicologia dei personaggi non è (più) quella che conoscevamo.
Lupin e Fujiko non si conoscono: si incontrano/scontrano per la prima volta.

Fujiko è, come nota lo stesso Lupin, intelligente, spietata e, soprattutto, una masochista patologica: disposta a tutto, davvero a tutto, non importa quanto in basso debba scendere, pur di ottenere quello che vuole.
Quindi si limona duro, la si tira via con la fionda e c'è anche un po' di (in)sano fingering.


Lupin, invece, è talmente consapevole della propria abilità sovrumana da trovare diletto solo nell’imbarcarsi volontariamente in situazioni disperate pur di poter provare un brivido d’eccitazione. Una sorta di Sherlock-soluzione 7% dedito al furto, che attira volontariamente l’attenzione della polizia sul suo prossimo colpo solo per renderlo più interessante. Altrimenti si annoia.


I due, ovviamente, fanno scintille ma questa cosa relega la trama dell’episodio in sottofondo.
Trama? Ho detto trama?
Scusate, volevo dire “quel patetico pretesto infarcito di cliché che era già vecchio alla fine degli anni 70” che hanno spacciato per trama.
Ora: era il primo episodio, sono a tutti gli effetti personaggi nuovi e c’era bisogno di conoscerli a dovere.
Se è così, ci si può anche stare. Purché dal prossimo l’azione –intesa come sviluppo narrativo- prenda il sopravvento.
Io sarei anche ottimista, se solo qualche Genio del Marketing ™ non avesse dato l’incarico a Koike.
Ma almeno la curiosità di vedere il secondo episodio c’è.

Un’ultima cosa. Difficile che vedremo questa serie in Italia (be happy), ma comunque, e fermo restando l’apprezzamento per chi l’ha dovuto sostituire, sapere che non avrebbe comunque avuto la sua voce mi fa male dentro.  

giovedì 5 aprile 2012

2 cent su... THE WALKING DEAD


Sono un morto che cammina. Credo abbia fatto male quando sono morto, ma ora non ha più importanza. Ora importa solo la carne.
Le cose sono diverse, ora. Più semplici. Il mondo come lo conoscevo prima ha smesso di avere significato e, sapete, ora penso che un vero significato non l’abbia mai avuto. Che sia stata tutta un’illusione collettiva, una gigantesca illusione reciproca.
Guardo questi tizi dall’altra parte della rete, dove si sono rinchiusi per sfuggirci. Credo siano venuti da lontano e ora sono lì, ancora fuori dalla nostra portata. Li vediamo agitarsi, urlarsi dietro. Ogni tanto si accoppiano come bestie dotate di sentimenti, altre volte si ammazzano tra loro. Il pensiero che prima ero anche io così potrebbe quasi infastidirmi.
Nessuno di noi ucciderebbe un nostro simile. Non ce n’è alcun bisogno: non siamo nutrimento. Noi siamo puri. Noi siamo la parte migliore di voi, rassegnatevi. È per questo che, alla fine, vinceremo: noi siamo quello che rimane dopo che i vostri patetici tentativi di “fare la cosa giusta” si svelano per quello che sono sul serio. Ipocrisia, meschinità, autocompiacimento. Non abbiamo bisogno di nascondere la nostra natura per paura di quello che potrebbe succedere, dell’opinione degli altri.
Qui non esiste bene o male, vedete. Esiste solo la carne. Voi pensate di essere vivi, di essere nobili, di essere migliori di noi. O dei vostri simili. E per dimostrarlo siete capaci di nefandezze che ai vostri stessi occhi appaiono come necessarie. Giuste, perfino.
Noi no, noi siamo tutti uguali. Siamo un mostro sociale. Vi terrorizziamo non perché vedete in noi qualcosa di diverso, qualcosa di alieno e altro. Vi facciamo paura perché sapete bene che la nostra fame è la vostra fame. Che, senza il velo ipocrita che chiamate “civiltà”, noi siamo tutto quello che c’è.
Noi siamo morti che camminano, e lo siete anche voi.

martedì 3 aprile 2012

Nomen Omen


Come prima cosa, il nome.
Che non fa riferimento alla bontà d’animo del sottoscritto. Peraltro alquanto ardua da individuare.
Il nome del blog è un omaggio a una divinità della letteratura contemporanea, Douglas Adams, che condivide un posto nel mio personalissimo Olimpo con sua maestà Stephen King, con l’immenso Terry Pratchett e altre meraviglie del genere.
La Cuore d’Oro è un’astronave capace di spostarsi nelle vastità dello spazio grazie al Motore ad Improbabilità Infinita, e mi piace pensare che nelle profondità di questa palla di roccia ci sia una versione più grande di quel motore.
Perché spiegherebbe buona parte delle assurdità che quotidianamente allietano le nostre esistenze.
Consideratela quindi una dichiarazione di intenti, un identificativo e un buon augurio.

Come seconda cosa, la ragione.
A un certo punto mi sono accorto che mi stavo comportando come il tizio che non acquista mai un biglietto, e poi si lamenta di non vincere la lotteria.
Mi spiego.
Fino ad ora ho mantenuto, nei confronti del uebduepuntozzero, lo stesso atteggiamento (un misto di umile diffidenza e scostante snobberia) che ho avuto nei confronti del suo predecessore. Frequento un solo forum, per ragioni troppo lunghe da spiegare qui, non ho mai avuto un profilo Facebook, niente Skype, niente cinguettii e cose del genere.
Il che significa, naturalmente, che non ha un gran senso lamentarsi delle scarse opportunità di contatti, sia personali che professionali.
Per farvi capire: così è come ho sempre immaginato il mio rapporto con feisbùc e simili:




E il discorsetto “è uno strumento e dipende da come lo usi” secondo me ha poco senso.
Anche un fucile è uno strumento, ma hai voglia a usarlo per fare altro che non sia sparare.
FB (e Twitter, e Pinterest, e i blog, eccetera) nascono con una funzione: condividere i fatti tuoi con gli altri.
Il che presuppone che 1) tu abbia fatti tuoi che vuoi condividere con altri e 2) che gli altri siano interessati ai fatti tuoi.
Ultimamente ho avuto modo di rivalutare la mia opinione su entrambi i punti.
Sul primo, poco da dire: tutto quello che troverete qui (e su FB, e su qualunque altra social- piattaforma) è roba mia/altrui che credo abbia un senso condividere.
Sul secondo punto, la mia personale esperienza è che se c’è una caratteristica umana che Internet ha amplificato è la curiosità nei confronti dei fatti degli altri. E l’incrollabile sicurezza di avere diritto ad avere, e a esprimere, un’opinione in proposito.

Io non è che sia proprio d’accordissimo con questa cosa, ma visto che non li puoi battere…

Come terza e ultima cosa, il rito delle promesse.
Prometto che sarò sempre corretto nei confronti di quello che scrivo. E, quindi, nei confronti di quelli che leggono.  
Prometto che rispetterò sempre il mio essere vecchio dentro. Non vado alla ricerca di news dell’ultimissimo decimo di secondo. Non me ne frega un granché se pubblico qualcosa di “old”, fino a che penso di avere da dire qualcosa di anche minimamente interessante sull’argomento.
Prometto che cercherò di aggirare le regole della netetiquette e dei social network ogni volta che mi sarà possibile. Se cerco il vostro contatto su FB, se accetto la vostra richiesta di amicizia, se rispondo ai vostri commenti è perché voglio farlo. In caso contrario, semplicemente lasciate perdere: si risparmiano tempo e seccature.

Se tutto questo vi sembra spocchioso, incomprensibile o quant’altro…
Salve, mi chiamo Massimiliano, gli amici mi chiamano Max.
Piacere di conoscervi.