martedì 10 aprile 2012

Birra, True Story e Cucchiarè

Inauguro due nuove sezioni in un sol colpo. La premessa di “True Story” è che tutto quello che scrivo è, per quanto incredibile possa sembrare, pura verità. O quasi.




“Beer good” è auto esplicativa. And foamy. Check reference.




La cosa che stupisce me per primo è che la birra neanche mi piaceva.
Il buon vino ok, quello lo apprezzo.
I buoni liquori, anche.

Ma la birra, proprio no.
Troppo amarognola, troppo pastosa e pipipi (tipico verso del maximus aemulus schifiltosus).
E non è che parli di molto tempo fa: qualche anno o giù di lì.
Ricordo anche qualche battibecco in merito, nel periodo universitario.
Del tipo: ma se non ti piace perché la bevi? (Che poi, capirai: al massimo una Leffe Rossa)
Mah, per far gruppo, perché siamo in compagnia… insomma boh. Anzi, sai cosa? Smetto proprio di berla, tanto manco mi piace davvero.
E così è stato, per anni.

Poi leggo American Gods.
Che è un gran bel libro.
E che, probabilmente, ha cortocircuitato qualche sinapsi, perché mentre lo leggo mi viene questa improvvisa smania di aprire una six-pack di birra americana e trangugiarla modello Barney dei Simpson.
Deve essere una sensazione molto simile alle voglie da donna incinta, o all’improvviso apprezzamento nei confronti di finger fish + custard.


Insomma, mi cambia il senso del gusto. Ma veramente da un momento all’altro.
Anzi: da una pagina all’altra.
Roba che a raccontarla non ci si crede.
Quindi, se non vi piace la birra, non angustiatevi: se ce l’ho fatta io, c’è speranza anche per voi.

E meno male, altrimenti mi sarei perso anche momenti di gioia suprema e posti che fanno bene all’anima.
Tipo (per citare giusto l’ultimo visitato, gli altri arriveranno), Cucchiarè, che è questo piccolo locale in questo piccolo paesino che se non siete di Mariglianella, è difficile l’abbiate mai sentita nominare, Mariglianella.
E tanto per fare sfegatata e meritata pubblicità, ci sono un bel po’ di ottime ragioni per voler bene a Cucchiarè. Per cominciare perché è un localino rustico che pare uscito da Frittole.
Perché Antonio, il titolare, è capace di parlarvi con dovizia di particolari di un micro-birrificio islandese che produce solo una bottiglia all’anno come se ne avesse una lì. E, al 99%, è proprio così.
Perché si mangia molto molto bene (anche se attendiamo tutti con molta ansia il giorno in cui ricomincerà a fare le pizze, che ci mancano).
Perché a volte, ad intervalli random, ci si trova la sacher torte alla birra, che è tipo la cosa più buona mai fatta al mondo (seguita a ruota dalla salsa barbecue con riduzione di birra trappista...).
E perché, se è in serata, Antonio può anche farvi assaggiare cose come QUESTA.

E QUESTA, miei cari, è una stout che già era eccezionale all'origine, ma che Antonio ha fatto accuratamente invecchiare per anni, fino a trasformarla in un’esperienza sensoriale capace di coccolare le vostre papille gustative una per una.
Bevetela, e vi dirà che va tutto bene, che è tutto bello e giusto.
E spumoso.


PS: per la cronaca, il testo sul bicchiere è questo:
“There is an ancient Celtic axiom that says ‘Good people drink good beer.’
Which is true, then as now.
Just look around you in any public barroom, and you will quickly see: bad people drink bad beer. Think about it”
Amen.

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