Quando
ho preso la decisione di aprire un blog, l'ho fatto dandomi un paio di precise
regole.
Regola
uno: sarei stato onesto.
Poi,
come diretta conseguenza della prima regola: non avrei parlato dei "fatti
miei".
Una
delle caratteristiche che mi differenzia dalla "net generation" è
l'incapacità di trasferire al pubblico il mio privato. Pudore, se volete.
Posso
scrivere frasi ad effetto su Facebook, fare battute o accenni più o meno
velati. Ma una parte consistente di quello che vivo appartiene a me, e a me
solo.
Una
cosa abbastanza vecchio stile, in un mondo dove si passa il tempo a postare su
Twitter, me ne rendo conto. Ma io funziono così.
Questo
non toglie che io possa voler condividere qualcosa di minimamente divertente, o
interessante, ragion per cui nasce questo blog.
Le
cose hanno funzionato benino per un po', poi non ho avuto molto tempo per star
dietro al blog in modo continuativo.
Inoltre
è successo che, per una di quelle strane e mistiche coincidenze, una fesseria
scritta su un idiotissimo cartellone pubblicitario iniziasse a totalizzare
contatti come manco Verdone che gioca a flipper.
La
cosa mi ha colpito in modo non proprio positivo, così avevo pensato di
prendermi una pausa e riflettere un po' su visibilità, pubblico, massimi
sistemi dell'Universo…
Quella
roba lì.
Fortuna
vuole che ci abbia pensato la vita a riportarmi saldamente coi piedi per terra
(e con l'animo anche un po' più giù).
Succede
qualcosa di grave, e non è più così importante stabilire cosa sia
"materiale da post".
Allora,
perché sono di nuovo qui?
Perché
c'è una possibilità che la scrittura abbia un minimo effetto terapeutico.
Mi è
già successo.
Mio
padre era una persona forte. Spesso non andavamo d'accordo e spesso abbiamo
anche discusso. Tutto normale.
Ma ha
fatto tutto il possibile, e anche di più, per assicurarmi un futuro che lui,
per sé, aveva saputo costruirsi da solo.
All'inizio
pensavo si trattasse "solo" di una forma di depressione, e dio sa se
non c'erano abbastanza motivi per essere depressi, poi -con un ritardo che non
sarò mai in grado di perdonarmi- scoprimmo che aveva un cancro al cervello.
Inoperabile,
incurabile, mortale.
Abbiamo
lottato insieme per due anni, due anni in cui l'ho visto trasformarsi dalla
persona verace e sanguigna che conoscevo in un bambino incapace di muoversi e
parlare, mentre quella schifezza che aveva nella testa se ne mangiava un pezzo
alla volta.
Non
ha mai perso la dignità, neanche quando è stato costretto alle peggiori umiliazioni
dalle sue condizioni.
Il
mio unico pensiero, per due anni interi, è stato fare in modo che quando fosse
arrivato il momento, lui e la mia famiglia avrebbero potuto affrontarlo almeno
con serenità.
In quei
due anni ho tagliato fuori dalla mia vita tutto quello che poteva essere
"superfluo".
Ho
allentato rapporti con amici, ridotto al limite la mia vita sociale, persino
condizionato il rapporto con la persona che amo in funzione del momento che
sapevo attendeva la mia famiglia appena dietro l'angolo.
Il
giorno prima che morisse, prima che quello che rimaneva della sua mente si
spegnesse per l’ultima volta, il suo ultimo gesto di coscienza è stata una
carezza.
Un
ultimo, immenso gesto d'affetto da un uomo che avevo spesso reputato incapace
di esprimere i propri sentimenti.
E
l'ha data a me.
È stata
mia, e solo mia e, se non potrà mai essere una consolazione per averlo perso,
per averlo perso in quel modo, almeno mi ha dato pace.
Scrivere
mi ha aiutato a raccogliere e tenere insieme i pezzi.
Per
quanto possa sembrare un cliché, ha funzionato.
Con
il tempo ho recuperato, ho iniziato a ricostruire.
Stavo
(sto) anche andando benino, tutto considerato.
(Una
cosa che ho imparato da questa esperienza è che molti parlano del dolore senza
conoscerlo davvero. Magari sono convinti di essere persone con una profonda e
incolmabile sofferenza interiore.
Dal
mio punto di vista, fino a che negli occhi di qualcuno a cui vuoi davvero bene
non vedi tutta la paura e tutto il dolore del mondo, e sai che non hai alcun
potere, nessun modo per salvarlo, allora non sai nulla della sofferenza.
Puoi
anche venire fuori dall'Inferno, ma di solito non è che rimanga molto oltre la
cenere.)
E ora
sono di nuovo qui. Proprio quando pensavo che fosse arrivato il momento di dare
una nuova svolta alla mia vita, di riprendermi un pezzetto di quella vita
finora accantonata.
Succede
di nuovo: una malattia che non è organica come “la parola con la C” ma non per
questo è meno orribile, meno subdola e debilitante. E colpisce troppo, troppo
vicino.
Non
so cosa succederà da domani.
Non
so cosa aspettarmi oltre la paura.
Magari
scrivere, gettare parole sullo schermo e poi lasciarle andare via (altrimenti
non avrebbe senso: sarebbe barare) potrebbe servire a darmi anche solo qualche
minuto di requie.
E,
accidenti, allora ne vale la pena.
È già successo.
Magari
succederà di nuovo.
Grazie
per aver letto fino a qui.