lunedì 3 settembre 2012

About me



Quando ho preso la decisione di aprire un blog, l'ho fatto dandomi un paio di precise regole.
Regola uno: sarei stato onesto.
Poi, come diretta conseguenza della prima regola: non avrei parlato dei "fatti miei".

Una delle caratteristiche che mi differenzia dalla "net generation" è l'incapacità di trasferire al pubblico il mio privato. Pudore, se volete.
Posso scrivere frasi ad effetto su Facebook, fare battute o accenni più o meno velati. Ma una parte consistente di quello che vivo appartiene a me, e a me solo.
Una cosa abbastanza vecchio stile, in un mondo dove si passa il tempo a postare su Twitter, me ne rendo conto. Ma io funziono così.
Questo non toglie che io possa voler condividere qualcosa di minimamente divertente, o interessante, ragion per cui nasce questo blog.

Le cose hanno funzionato benino per un po', poi non ho avuto molto tempo per star dietro al blog in modo continuativo.

Inoltre è successo che, per una di quelle strane e mistiche coincidenze, una fesseria scritta su un idiotissimo cartellone pubblicitario iniziasse a totalizzare contatti come manco Verdone che gioca a flipper.

La cosa mi ha colpito in modo non proprio positivo, così avevo pensato di prendermi una pausa e riflettere un po' su visibilità, pubblico, massimi sistemi dell'Universo…
Quella roba lì.

Fortuna vuole che ci abbia pensato la vita a riportarmi saldamente coi piedi per terra (e con l'animo anche un po' più giù).

Succede qualcosa di grave, e non è più così importante stabilire cosa sia "materiale da post".

Allora, perché sono di nuovo qui?

Perché c'è una possibilità che la scrittura abbia un minimo effetto terapeutico.
Mi è già successo.

Mio padre era una persona forte. Spesso non andavamo d'accordo e spesso abbiamo anche discusso. Tutto normale.
Ma ha fatto tutto il possibile, e anche di più, per assicurarmi un futuro che lui, per sé, aveva saputo costruirsi da solo.

All'inizio pensavo si trattasse "solo" di una forma di depressione, e dio sa se non c'erano abbastanza motivi per essere depressi, poi -con un ritardo che non sarò mai in grado di perdonarmi- scoprimmo che aveva un cancro al cervello.
Inoperabile, incurabile, mortale.
Abbiamo lottato insieme per due anni, due anni in cui l'ho visto trasformarsi dalla persona verace e sanguigna che conoscevo in un bambino incapace di muoversi e parlare, mentre quella schifezza che aveva nella testa se ne mangiava un pezzo alla volta.

Non ha mai perso la dignità, neanche quando è stato costretto alle peggiori umiliazioni dalle sue condizioni.
Il mio unico pensiero, per due anni interi, è stato fare in modo che quando fosse arrivato il momento, lui e la mia famiglia avrebbero potuto affrontarlo almeno con serenità.

In quei due anni ho tagliato fuori dalla mia vita tutto quello che poteva essere "superfluo".
Ho allentato rapporti con amici, ridotto al limite la mia vita sociale, persino condizionato il rapporto con la persona che amo in funzione del momento che sapevo attendeva la mia famiglia appena dietro l'angolo.

Il giorno prima che morisse, prima che quello che rimaneva della sua mente si spegnesse per l’ultima volta, il suo ultimo gesto di coscienza è stata una carezza.
Un ultimo, immenso gesto d'affetto da un uomo che avevo spesso reputato incapace di esprimere i propri sentimenti.
E l'ha data a me.
È stata mia, e solo mia e, se non potrà mai essere una consolazione per averlo perso, per averlo perso in quel modo, almeno mi ha dato pace.

Scrivere mi ha aiutato a raccogliere e tenere insieme i pezzi.
Per quanto possa sembrare un cliché, ha funzionato.

Con il tempo ho recuperato, ho iniziato a ricostruire.
Stavo (sto) anche andando benino, tutto considerato.

(Una cosa che ho imparato da questa esperienza è che molti parlano del dolore senza conoscerlo davvero. Magari sono convinti di essere persone con una profonda e incolmabile sofferenza interiore.
Dal mio punto di vista, fino a che negli occhi di qualcuno a cui vuoi davvero bene non vedi tutta la paura e tutto il dolore del mondo, e sai che non hai alcun potere, nessun modo per salvarlo, allora non sai nulla della sofferenza.
Puoi anche venire fuori dall'Inferno, ma di solito non è che rimanga molto oltre la cenere.)

E ora sono di nuovo qui. Proprio quando pensavo che fosse arrivato il momento di dare una nuova svolta alla mia vita, di riprendermi un pezzetto di quella vita finora accantonata.

Succede di nuovo: una malattia che non è organica come “la parola con la C” ma non per questo è meno orribile, meno subdola e debilitante. E colpisce troppo, troppo vicino.

Non so cosa succederà da domani.
Non so cosa aspettarmi oltre la paura.

Magari scrivere, gettare parole sullo schermo e poi lasciarle andare via (altrimenti non avrebbe senso: sarebbe barare) potrebbe servire a darmi anche solo qualche minuto di requie.
E, accidenti, allora ne vale la pena.
È già successo.
Magari succederà di nuovo.

Grazie per aver letto fino a qui.

1 commento:

  1. Quando ho iniziato a scrivere nel senso di volerlo fare realmente, il mio compagno di banco di allora (con il quale avevo un carteggio quasi costante durante le ore di lezione) una volta mi chiese: ma perché vuoi scrivere?

    Quando mio padre se n'è andato nel giro di un weekend per un'occlusione intestinale, mi sono rimaste molte immagini cristallizzate in testa, la bottiglia d'acqua presa presso il distributore di benzina, l'orologio dell'ospedale fermo alle 12.24 (sono passati esattamente 20 anni da allora), Dalla che cantava Caruso alla radio, per farmi sbiancare basta suonare quel motivo e non è tanto bello.
    Da qualche parte appeso c'è ancora un qualche perchè.

    Così, quando mi capita di chiedermi il perché di qualcosa, mi rendo conto che ci sono domande che non avranno mai risposta, oltre a far avvicinare la gente.

    Non so quanto possa far piacere considerando il contenuto, ma bel post.

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